La necropoli globale

di Marcello Veneziani

Da tre anni e mezzo, salvo brevi intervalli, passiamo da un incubo all’altro, e ogni tentativo di pensare altro, di parlare d’altro, di scrivere d’altro, è visto come qualcosa di inopportuno, di elusivo, quasi di vigliacco, oltre che di stravagante. Dai tempi in cui esplose il covid, nel marzo del 2020 a oggi, stiamo passando da uno psicodramma globale all’altro, senza soluzione di continuità e con l’imperativo di farsi coinvolgere, se non si vuole passare per disertori o peggio, complici, per intelligenza col nemico. Non c’è evento che si possa circoscrivere, localizzare: ogni cosa che accade, ci tocca da vicino, riguarda anche noi, anzi è il preavviso di quel che ci accadrà. La somministrazione dell’angoscia è affidata ai media e propagata dai social.
E appena c’è una pausa tra una tragedia e l’altra, basta un evento atmosferico per trasferirci in una specie di intervallo di “ricreazione”, nell’angoscia del clima, l’ansia della catastrofe ambientale ormai imminente. In modo da non allentare mai la tensione, neanche in pausa o in gita.
Non dirò che c’è un Grande Complotto Mondiale, o un Grande Satana, che ci impone questa filiera di emergenze e di paure. Non può essere. Più probabilmente siamo entrati in una psicosi globale con reazione a catena, che comporta tra l’altro la radicalizzazione della società in posizioni opposte, e ogni tentativo di comprendere, capire le ragioni dell’altra parte s’infrange nella chiamata alle armi: o sei di qua o sei di là, sei col nemico, sei col male, sei dalla parte della malattia, dell’aggressione, del terrore. Ogni evento scava poi un fossato di odio e diffidenza tra noi “occidentali” e loro: i cinesi del virus, i russi dell’invasione, i terroristi islamici e i loro alleati e protettori.
Ma di questa atmosfera che viviamo ormai da troppi anni, vorrei far notare innanzitutto la sua ricaduta sul piano psicologico: si sta impoverendo con una velocità impressionante, pari solo alla radicalità della prospettiva, il nostro orizzonte di pensiero e di vita.
Tutto ciò che non combacia o non conduce ai temi dominanti di oggi è giudicato come una fuga, uno sproposito, un andare fuori tema. Impallidisce la storia, regredisce il pensiero, si essiccano perfino i risvolti umani, sentimentali e affettivi, almeno quelli un tempo dichiarati. Una prova sul campo di quel che dico, un test indicativo, lo trovo nel campo che mi è più congeniale, la cultura. Ogni idea, memoria, critica, divergenza, approfondimento precipita direttamente nell’oblio senza passare da alcun dibattito e alcuna attenzione. I libri devono solo rispecchiare il momento che stiamo vivendo, non possono permettersi di parlare d’altro. Devono parlare di questo mondo o del suo rovescio, per dirla col generale Vannacci. Ma restando strettamente ancorati all’attualità. Se andate a ritroso e sfogliate annate passate di qualunque diario pubblico a mezzo stampa, avete quasi l’impressione che prima vivessimo tutti a Bisanzio, distolti nella varietà dei mondi e degli argomenti, intenti a stabilire la natura degli angeli mentre la città era sotto assedio. Questo rimpicciolimento di vedute alla sola panoramica dei giorni nostri, ci sta impoverendo in modo assoluto e, temo, irreversibile.
A pensarci bene, è proprio questo l’effetto più deleterio che questa mondializzazione monomaniacale, ossessiva, produce sulle nostre menti e nelle relazioni tra le persone. Con atteggiamenti schizofrenici di massa davvero impressionanti.
Ho trovato raccapricciante l’altra sera uscire per le strade di provincia e imbattermi in sciami di bambini che per giocare ad Halloween erano sanguinanti, morenti, accoltellati, proprio come accadeva – ma sul serio, tragicamente – ai loro coetanei a Gaza o in Israele. C’era una bambina con un finto coltello infilato in una tempia fino al manico, che usciva sanguinante con la sua lama dall’altra tempia… Avevo visto immagini analoghe e raccapriccianti poco prima, ma vere, in un video da Gaza che mi era stato girato. Vedere questa simulazione che imita la realtà più cruenta, mentre accade; vedere che il gioco, lo scherzo e la caricatura ricalcavano, inconsapevolmente, l’evento più orrendo e funesto dei nostri giorni, indicava la riduzione del mondo a una dimensione, la peggiore: sia che si viva, sia che si giochi, l’orizzonte è la morte, lo spaventoso, il terribile e il cruento.
In altri termini, anche l’evasione, lo scherzo fa il verso alla realtà, ne è la caricatura giocosa: in fondo, la differenza tra le due situazioni è data solo dal luogo, e dalla lontananza. Poveri quei bambini che vivono realmente, senza colpa, la tragedia di nascere e vivere in quei territori; fortunati quei bambini che da noi possono giocarci su per una sera e uccidere e morire per finta. Ma il mondo non sembra uscire da quell’orizzonte, orrore vero o simulato; che per dirla con Heidegger, rivela l’uomo, fin dalla più tenera età, come essere per la morte; vive, muore o scherza sull’estrema linea di confine.
Possiamo allora dire che la barbarie sta trionfando in quei luoghi come nel mondo global, seppure in gradi e misure diverse: lì colpisce direttamente, qui invece si espande
anche da noi non c’è altro orizzonte che quello imposto dal video, orizzonte riduttivo che scaccia ogni altro segno di vita. La civiltà è l’essere per la vita, che si tramanda; la resistenza alla morte attraverso le opere, gli amori, le fondazioni. Da quando la globalizzazione ha imboccato questa china, diventando necropoli globale, ogni giorno è due novembre.

Fonte

Non c’è pace in Medio Oriente

Analisi della situazione generale del ricercatore Giacomo Gabellini

di Francesco Servadio

I tragici eventi dei giorni scorsi potrebbero rivelarsi soltanto il macabro precedente di ciò che potrà accadere nel prossimo futuro, qualora il conflitto dovesse espandersi al di fuori di Israele. Il rischio escalation è sempre presente, sebbene gli Stati Uniti desiderino porre un freno. Inoltre va ancora definita la situazione in Ucraina, uscita dai radiar mediatici dopo l’attacco di Hamas. Ne abbiamo parlato con il ricercatore indipendente Giacomo Gabellini, scrittore, saggista ed esperto di tematiche storiche, economiche e geopolitiche.

Qualcuno non si capacita del fatto che Israele sia stato colto di sorpresa. È rimasto sorpreso anche Lei?

“Solo in parte, perché era evidente che sarebbe accaduto qualcosa. Tuttavia mi sarei aspettato un attacco di Israele nei confronti del Libano, dove gli Israeliani avevano dispiegato le loro forze. Ciò spiegherebbe un’intensa comunicazione tra Hamas ed Hezbollah: la loro collaborazione ha fatto sì che l’esercito israeliano lasciasse sguarnita la barriera di Gaza, territorio di circa 70 chilometri tra i più sorvegliati al mondo, attraverso sistemi sofisticatissimi. Il fallimento della rinomata intelligence israeliana è quanto meno sospetto: è veramente anomalo che si sia lasciata sorprendere, nonostante i continui avvertimenti dell’intelligence egiziana”.

Nessuna persona ragionevole e dotata di umana sensibilità può anche solo minimamente giustificare le atrocità commesse da Hamas. Come si è arrivati, però, a questo orrore e alla reazione -a quel punto inevitabile e altrettanto violenta- da parte di Israele?

“Nessuno -come ha già detto Lei- può giustificare le atrocità di Hamas. Siamo però arrivati a questo orrore a seguito dell’emarginazione della causa palestinese, emarginazione che dura da almeno un decennio. Tutti i conflitti mediorientali avevano posto la causa al centro; poi, l’inettitudine della OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e la contestuale incapacità di Israele di favorire la soluzione del problema hanno contribuito ad inasprire ulteriormente i loro rapporti. Secondo alcuni osservatori, come il noto professore Avner Cohen, Hamas sarebbe una ‘creazione’ di Israele, in quanto quest’ultimo non sarebbe stato in grado né di contenere gli estremisti, né di distruggere il mostro che nel frattempo stava proliferando. Hamas ha svolto un ruolo cruciale nel sabotare gli accordi di Oslo con Rabin e Arafat. Lo stragismo operato da Hamas, l’inasprimento del controllo da parte di Israele e le responsabilità dell’attuale governo israeliano hanno condotto a questa situazione. Non dimentichiamoci che il Ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir -leader del partito israeliano di estrema destra ‘Otzma Yehudit’- e il Ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich -leader del partito nazionalista ‘Sionismo religioso’- sono esponenti del sionismo più intransigente, che si prefigge di colonizzare i territori palestinesi. Secondo il Rapporto Speciale 2020 delle Nazioni Unite, Israele non solo non avrebbe mostrato alcuna collaborazione, ma avrebbe inasprito il controllo nei confronti dei Palestinesi. E così siamo arrivati ai fatti del 7 ottobre scorso”.

Com’è nato Hamas? Lo si può distinguere dal popolo palestinese in generale?

“Certo, Hamas va distinto dalla popolazione palestinese. Hamas nasce come costola del movimento politico-religioso ‘Fratellanza musulmana’ -fondato in Egitto da Ḥasan al-Bannā’ negli Anni 20- e si è poi diffuso nel mondo musulmano e in Medio Oriente. Lo sceicco Aḥmad Labous Yāsīn, punto di riferimento di Hamas, ottenne il controllo della striscia di Gaza, mentre al-Fatḥ l’ottenne in Cisgiordania. Considero molto grave e pericolosa la dichiarazione del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, riguardo al fatto che nessun Palestinese si possa considerare innocente. La reazione di Israele all’attacco di Hamas -per quanto feroce, deprecabile e per questo da condannare con forza- è a dir poco sproporzionata. Gaza è stata ridotta a un cumulo di macerie: stiamo assistendo a una carneficina di poveri civili”.

Quando scoppiano grandi conflitti è impossibile escludere una partecipazione attiva o comunque un coinvolgimento di USA e NATO…

“L’intero Occidente si è schierato -com’era prevedibile- dalla parte di Israele. Gli USA hanno già inviato due portaerei: tuttavia, per gli States, un loro coinvolgimento sarebbe molto rischioso, in quanto si inimicherebbero la maggior parte del mondo musulmano. Il presidente Biden ha affermato che l’invasione della striscia di Gaza da parte di Israele sarebbe un grave errore. Le sue parole sono significative: per gli USA, fra l’altro, Israele non è una questione di politica estera, ma interna. Qualunque presidente americano desideroso di far carriera non può assumere un atteggiamento critico nei confronti della politica israeliana: gli Stati Uniti temono questo e, naturalmente, l’allargamento del conflitto”.

Qual è il ruolo dell’Iran?

“L’Iran è il nemico giurato di Israele e, nonostante un’antica frattura -poi ricomposta- con Hamas, ha sempre sostenuto i movimenti palestinesi. C’è però un altro aspetto, temutissimo anche dagli USA: l’Iran occupa una posizione importantissima nel mercato petrolifero mondiale. Il 40% circa del petrolio mondiale passa attraverso lo Stretto di Hormuz: quale impatto avrebbe sull’inflazione statunitense -che sta risalendo- un eventuale coinvolgimento dell’Iran?”.

Parliamo di due tematiche molto delicate: dell’antisemitismo (e dell’antisionismo) e del perché pochi Paesi membri della Lega Araba riconoscono lo Stato di Israele…

“L’antisemitismo rappresenta il pretesto per tacitare qualsiasi critica nei confronti di Israele: è così che si costruisce il consenso, anche a livello mediatico. Ricordiamoci che, all’interno di Israele, è presente una grande critica al governo, molto più forte -per esempio- di quella nei confronti dei nostri governanti. Il quotidiano israeliano Haaretz critica aspramente la politica di Netanyahu. Per quanto riguarda, invece, i Paesi arabi, a seguito delle guerre arabo-israeliane il riconoscimento dello Stato di Israele significherebbe rischiare una grave sfiducia a livello interno. Gli Accordi di Abramo, partoriti dall’amministrazione Trump, non ebbero esito positivo: vennero rifiutati dai Palestinesi, che considerarono troppo oltranzista il governo israeliano”.

Quasi quattro anni di emergenza continua: Covid, crisi economica, guerre in Ucraina e in Israele. Cosa sta accadendo a livello geopolitico?

“Si sono disarticolate tutte le catene di approvvigionamento: prima con il Covid, poi con il conflitto tra Russia e Ucraina. Infine, vi è stato un disaccoppiamento dell’economica statunitense da quella cinese. Stanno scoppiando crisi in area balcanica e tra Armenia e Azerbaigian. Qualcosa si muove pure in Georgia e la situazione in Medio Oriente rischia di infiammarsi. Stiamo attraversando una grave crisi, dall’area balcanica fino al Medio Oriente: rischiamo un terribile ‘incendio’ nell’Eurasia”.

Zelensky non è più sotto i riflettori, perché l’attenzione mediatica si è spostata su Israele. A proposito: com’è finita tra Ucraina e Russia?

“È finita nell’unico modo che si potesse prevedere: la Russia non avrebbe mai perso questa guerra. Gli Occidentali hanno commesso un enorme errore di valutazione, ritenendo di fermare la Russia attraverso le sanzioni, cosa che non si è verificata. John Kirby ha dichiarato apertamente che la coperta inizia ad essere corta, perché non si potrà aiutare l’Ucraina all’infinito: non è possibile sostenere contemporaneamente, a livello industriale, le cause di Ucraina, Israele e Taiwan. Zelensky se ne è accorto ed è corso a Bruxelles, invocando aiuto”.

Dalla ‘guerra al virus’ alla ‘guerra con le bombe’ il passo si è rivelato breve. L’Italiano medio è stato ormai addestrato all’emergenza (ne dà testimonianza anche il messaggio IT Alert) e ad un controllo militarizzato del Paese. Ci si devono attendere ripercussioni del conflitto mediorientale anche in Italia? C’è rischio di attentati?

“In Europa sono presenti circa 20/25 milioni di musulmani, molti dei quali rivendicano il diritto di sentirsi a casa loro, perciò è plausibile che qualche scintilla infiammi le polveri. L’Italia conta poco, quindi credo possa rischiare una ricaduta prevalentemente di carattere economico. C’è da aspettarsi un ulteriore aumento del prezzo dell’energia: non disponendo più delle risorse del canale russo potrebbe trattarsi di un k.o. fatale per l’Unione Europea. La Germania sta vedendo cadere il proprio potere industriale e l’Italia le andrà dietro”.

Si ventila un attacco via terra da parte di Israele, per chiudere la partita. A quale soluzione bisognerebbe giungere in Medio Oriente per ottenere finalmente la pace?

“Bisogna vedere fino a che punto vorrà spingersi il governo israeliano sul piano politico. Nel 2006 Israele provò a infliggere una punizione al Libano ma venne sconfitto: non so se il popolo israeliano sia disposto -a differenza di quello palestinese, che è pronto a tutto- ad accettare un altissimo tributo di sangue. Non vanno sottovalutati né il coinvolgimento dei Paesi Arabi, né dell’Iran. Per gli USA, infine, le incognite sono numerosissime, anche in vista delle prossime elezioni. Cina e Russia hanno posto l’accento sulla necessità di dare vita a uno Stato palestinese, attenendosi alle deliberazioni delle Nazioni Unite. Le variabili sono parecchie e il futuro pare incerto”.

Giacomo Gabellini (1985), saggista e ricercatore indipendente specializzato in questioni economiche e geopolitiche. È autore di numerosi volumi, tra cui Ucraina. Una guerra per procura (2016), Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza (2017) e Weltpolitik. …

Quell’ingresso irregolare di ucraini consentito dal governo Meloni

di Cesare Sacchetti

C’è un altro fronte dell’immigrazione irregolare che non riguarda soltanto quello del Mediterraneo.

Quella del Sud dell’Europa è certamente la rotta più calda dei trafficanti di esseri umani se si pensa che solamente quest’anno c’è stato un vero e proprio arrivo di sbarchi record, triplicati rispetto allo scorso anno.

Il governo Meloni che si era fatto portatore della battaglia del blocco navale, espressione oggi praticamente dimenticata, adesso ama dire che i confini marittimi italiani sarebbero diventati d’un tratto “europei”.

Torneremo in un secondo momento su questa favola perché adesso ci interessa parlare delle altre migrazioni irregolari, quelle che stanno avvenendo nel silenzio generale dei media e delle istituzioni governative da circa un mese a questa parte.

Alcune fonti istituzionali si sono messe in contatto con noi e ci hanno descritto una situazione che vede un crescente arrivo di ucraini sul suolo italiano.

Ufficialmente, per potersi districare nelle varie interpretazioni giuridiche che riguardano l’arrivo degli ucraini sul suolo italiano, occorre fare riferimento alla direttiva 2001/55/CE del 2001.

Tale direttiva europea fu concepita in quel periodo per fare fronte all’arrivo straordinario di arrivi di sfollati dai Paesi dell’Est Europa dopo lo scoppio delle guerre balcaniche e dopo i sempre ineffabili bombardamenti della NATO che all’epoca giudicò il presidente serbo Milosevic un “dittatore” da punire.

Milosevic fu poi assolto dalla stessa corte penale internazionale che lo stava processando per immaginari crimini di guerra, ma questo non fa altro che ricordarci qual è il triste e consueto modus operandi del blocco Euro-Atlantico.

Il culto illuminista dei diritti umani è come una sorta di lampadina. Esso si accende solamente quando un determinato Paese si disallinea dalla geopolitica dello stato profondo di Washington.

Ciò detto, quando la Russia diede vita alla sua operazione speciale militare in Ucraina, il Consiglio UE si riunì prontamente e prese una decisione, la numero 2022/382, che stabilì che tutti i governi dell’UE riconoscevano uno status di protezione umanitaria temporanea agli ucraini che volevano migrare dall’Ucraina verso i vari Paesi dell’UE.

Questo status dura un anno, ed è stato recentemente rinnovato a marzo del 2023 portando così la prossima scadenza di questa protezione umanitaria a marzo del 2024.

Per dare applicazione a questa decisione, l’allora governo Draghi pubblicò il dpcm del 28 marzo del 2022 che stabilisce le regole per gli ucraini che vogliono entrare sul nostro territorio.

Secondo la direttiva UE citata in precedenza, gli ucraini che risiedevano in Ucraina prima del 24 febbraio del 2022 hanno diritto a spostarsi in uno dei 27 Paesi dell’UE e, una volta entrati, hanno diritto ad avere un permesso di soggiorno che consenta loro di risiedere nel Paese per il periodo nel quale è prevista la protezione umanitaria temporanea.

Il dpcm emesso dal governo Draghi ha previsto però che gli ucraini possano entrare in Italia anche senza avere inizialmente alcun permesso di soggiorno.

Le norme in questione prevedono che l’ucraino che si presenti alla frontiera italiana possa entrare soltanto attraverso una cosiddetta dichiarazione di presenza attraverso la quale informa le autorità del suo soggiorno in Italia.

Qualora i cittadini ucraini non presentino subito al momento d’ingresso sul territorio questa dichiarazione possono farlo dopo in questura entro otto giorni dal loro arrivo.

Se la permanenza dell’ucraino che decide di stare in Italia dovesse superare i 90 giorni, a quel punto è richiesto in ogni caso un permesso di soggiorno, sempre per motivi di protezione temporanea umanitaria.

Questo prevede l’iter legislativo privilegiato che il governo Draghi ha designato per gli ucraini senza ovviamente preoccuparsi troppo se questi siano effettivamente persone in difficoltà o meno o piuttosto pericolosi soggetti con precedenti penali che si sono allontanati dall’Ucraina anche per sfuggire alla leva obbligatoria, oppure nazisti del battaglione Azov che scappano per non essere processati per gli svariati crimini di guerra commessi.

Nonostante l’accesso semplificato per gli ucraini, a noi è stato detto da serie fonti istituzionali che non viene rispettato nemmeno questo iter.

Da circa un mese infatti starebbero superando in tutta tranquillità le frontiere del Nord-Italia dei pullman con diversi ucraini a bordo che non risultano aver presentato alcuna dichiarazione di presenza ai confini del Nord oppure alle questure una volta giunti in Italia.

Questi pullman arrivano nelle varie stazioni ferroviarie italiane, ad esempio quella di Milano, senza che nessuno dica loro nulla e poi una volta giunti sul posto vengono presi e smistati da personaggi che appartengono alle famigerate cooperative che da tempo sfruttano il business dell’accoglienza.

Quando gli ucraini arrivano in Italia, le varie cooperative dotate di interprete in lingua ucraina li prendono e li portano nelle loro strutture o appartamenti dove poi non vengono affatto avviati ad attività legali come sulla carta dovrebbe avvenire.

Nel caso, ad esempio, delle donne ucraine ci è stato segnalato un giro di prostituzione che vede le ucraine giungere sul posto e poi essere piazzate in vari appartamenti dalle cooperative che agiscono ovviamente di concerto con la criminalità organizzata nelle varie regioni italiane per organizzare il traffico.

Ci sarebbe in questo caso una liaison stretta tra queste cooperative e la mafia contro la quale l’attuale governo Meloni e i suoi predecessori non risultano aver fatto nulla.

Gli ucraini a rischio rimpatrio scelgono l’Italia come “rifugio”

Il maggiore arrivo di ucraini in Italia si spiega con la situazione di questi in altri Paesi del Nord-Europa. Si sta manifestando sempre più chiaramente la volontà da parte di alcuni governi di liberarsi degli ucraini che sono giunti nei vari Paesi da quando è iniziato il conflitto in Ucraina.

La Svizzera, ad esempio, sarebbe persino disposta a pagare 4mila euro per ogni ucraino pur di farli rimpatriare soprattutto poi perché con il passare del tempo diventa sempre più difficile liberarsi di questi migranti e anche perché nel sistema svizzero superata una certa permanenza nel Paese si ha diritto ad altri visti di residenza.

Un altro Paese che sembrerebbe pronto ad attuare una politica di rimpatri è l’Olanda dove lo status degli ucraini è sempre più incerto e dove la protezione temporanea potrebbe essere revocata da un momento all’altro.

Questo ha portato ad una sorta di mini-esodo nel quale gruppetti di ucraini iniziano a lasciare questi Paesi nel timore di tornare a casa e di finire preda delle varie coscrizioni obbligatorie soprattutto perché il governo nazista di Kiev non accorda a questi ucraini nessuno status di protezione umanitaria.

Per Kiev sono tutti soggetti pronti ad essere abili e arruolati. Dunque l’Italia, suo malgrado, è stata scelta come una delle mete privilegiate da chi vuole sfuggire ad eventuali espulsioni verso l’Ucraina e si è messo in moto il meccanismo descritto.

Ciò che appare impossibile è che il Viminale non sappia nulla del movimento che c’è alle frontiere del Nord-Italia e di questi ucraini che giungono di fatto come irregolari perché sono dei fantasmi che sfuggono persino già alle larghe maglie del dpcm designato da Draghi.

Soprattutto ci si chiede come sia possibile che il titolare del ministero dell’Interno, Piantedosi, non sappia che poi questi ucraini vengano avviati ad attività illegali anche attraverso le sempre presenti cooperative che paiono organizzatissime e chiaramente informate in anticipo degli arrivi di questi ucraini in Italia.

Stessa domanda ovviamente andrebbe rivolta alla titolare invece di palazzo Chigi, Giorgia Meloni, anche se è sempre più difficile trovarla lì, considerati i suoi incessanti viaggi all’estero che ora la vedono persino essere in Congo e Mozambico, mete piuttosto rare per un presidente del Consiglio.

Questo è l’altro traffico che sta avvenendo nel silenzio generale completamente oscurato dai media mainstream che probabilmente sanno ma non vogliono disturbare troppo le cooperative amiche all’opera nel lucroso traffico di esseri umani.

Si diceva prima che c’è stato un tempo in cui la Meloni giurava di voler difendere i confini, marittimi e terrestri, dall’invasione dei clandestini e dalle varie OGN impegnate in questo traffico.

Oggi invece costatiamo che il presidente del Consiglio ha preferito adottare praticamente la stessa linea del PD nascondendosi dietro la locuzione “confini europei” che non esiste nemmeno nel tanto citato diritto internazionale.

È proprio questo che stabilisce in base alla convenzione di Montego Bay che uno Stato ha il diritto di impedire il passaggio sulle sue acque marittime di quelle imbarcazioni che violino le sue leggi in materia di migrazioni.

Le violazioni chiaramente ci sono ma non c’è il governo però intenzionato ad esercitare gli strumenti a disposizione, quali uso delle navi della Marina e delle motovedette della Guardia Costiera, per sorvegliare i confini marittimi e impedire l’accesso di queste navi ONG, che tra l’altro non vengono nemmeno ovviamente messe al bando come avvenuto invece in Russia ed Ungheria, dove Putin e Orban hanno mostrato la porta a questo organizzazione finanziate da George Soros.

Se però la scusa, ridicola, per non difendere i confini marittimi italiani è quella che questi siano “europei” ci chiediamo allora quale sia quella per non difendere quelli terrestri altrettanto porosi con questi arrivi quotidiani di ucraini che poi finiscono per diventare manovalanza delle varie cooperative in affari con la mafia.

La domanda dunque che rivolgiamo al ministro dell’Interno e al presidente del Consiglio è se sappiano di questi ingressi illegali e, in caso affermativo, chiediamo anche perché sia stato concesso a questi ucraini di passare le frontiere violando le norme stabilite dalla protezione umanitaria.

Così come chiediamo se il presidente e il ministro sono informati del fatto che poi le cooperative prelevino questi ucraini e poi li avviino ad attività illegali.

Se la risposta dovesse essere affermativa, allora è evidente che al governo stia più che bene che questo traffico sia in essere.

Se più probabilmente non dovesse esserci nessuna risposta o una risposta negativa, chiediamo allora come sia possibile che il governo non sappia cosa accade sul suo territorio.

Appaiono tutte domande legittime, ma per avere una risposta ed un intervento effettivo sarebbe prima necessario un governo presente e reale, e l’impressione che abbiamo riscontrato da un po’ di tempo a questa parte e che non ci sia un esecutivo realmente in carica in Italia.

FONTE

Dilaga l’interesse per gli incontri Fetish Mistress nella città di Milano

Milano è una città cosmopolita, vivace e da sempre in continua evoluzione. È una città che offre ogni tipo di interesse a avanguardia, ottime opportunità di lavoro, studio, divertimento, locali e serate per ogni genere di divertimento all’insegna della multi cultura e di persone provenienti da tutto il mondo. In questo contesto, non sorprende che l’interesse per gli incontri Fetish Mistress siano in costante aumento.

Secondo una recente ricerca, il 70% dei single milanesi ha utilizzato almeno una volta un’app di incontri, e più di recente, l’attenzione verso il Kinky e tutto ciò che riguarda dominazione e giochi di ruolo è in aumento esponenziale. Questo dato è in linea con la tendenza verso la pubblicazione di contenuti contenenti immagini e video di piedi, tacchi e gambe su tutti i social più famosi.

Ci sono diversi fattori che contribuiscono al crescente interesse per i siti di incontri Mistress e Fetish Femdom a Milano. Innanzitutto, la città è caratterizzata da una grande diversità culturale.

Questo rende più facile trovare persone con interessi e valori simili, anche se provengono da contesti diversi.

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Non è garantito che si incontri subito la persona giusta, ogni incontro è una chimica a sé, fatta di momenti, attimi, stati d’animo e mille altre sfaccettature, ma di certo non si parte totalmente alla cieca e si ha man mano modo di conoscersi.

I siti di incontri Fetish Mistress sono uno strumento popolare e efficace e il traffico di visitatori dalle città Lombarde, Milano in vetta, è in costante aumento.

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I siti di incontri fetish più popolari a Milano sono quelle che offrono un’ampia gamma di opzioni e funzionalità, come RelazioniSociali che ha di recente effettuato un restyling volgendo il proprio sguardo al mondo Mistress, pubblicando articoli, news e una sezione dedicata a meravigliose clip video per venerare le Mistress di Milano.

Alcune utili indicazioni per chi si affaccia al mondo del Kinky: in prima battuta è importante chiarire che il gioco o sessione deve sempre avvenire in maniera consensuale, sana e sicura, è sempre bene definire interessi, passioni e limiti per un divertimento reciproco e una piena immersione in totale serenità.

Il gioco di ruolo e scambio di potere che si perfeziona verso la Padrona riguarda non solo slave o praticanti del BDSM, ma anche coloro che adorano le estremità femminili, l’eleganza di una vera Domina e che desiderano provare nuove fantastiche esperienze. L’informazione è alla base di questo settore, è sempre bene conoscere la terminologia specifica e lasciarsi guidare da Mistress esperte.

LA GUERRA IN UCRAINA SERVE AGLI USA. E NON NE FANNO MISTERO – Di Caitlin Johnstone

FONTE: Settembre 2023 

Mentre alla massa viene ripetuto ossessivamente da 18 mesi lo slogan della “guerra non provocata”, analisti e opinionisti di regime sono concordi nel ritenere che la guerra in Ucraina sia un grande affare per gli Stati Uniti sotto ogni punto di vista. E lo dicono pure esplicitamente. Peccato che a leggerli siano in pochi.

Titolo originale: US Officials Keep Boasting About How Much The Ukraine War Serves US Interests,
di Caitlin Johnstone, Caitlin’s Newsletter, settembre 2023

Uno dei buchi narrativi più evidenti nella narrativa ufficiale mainstream sull’Ucraina è il modo in cui i funzionari statunitensi continuano a vantarsi apertamente del fatto che questa guerra, apparentemente non provocata, che gli Stati Uniti stanno appoggiando solo per bontà di cuore, serva enormemente gli interessi degli Stati Uniti.

In un recente articolo per il Connecticut Post, il senatore Richard Blumenthal ha assicurato gli americani che “stiamo ottenendo il massimo profitto dai nostri investimenti in Ucraina”:

“Per meno del 3% del bilancio militare della nostra nazione, abbiamo consentito all’Ucraina di ridurre della metà la forza militare della Russia”, scrive Blumenthal. “Abbiamo unito la NATO e costretto i cinesi a riconsiderare i loro piani di invasione di Taiwan. Abbiamo contribuito a ripristinare la fede e la fiducia nella leadership americana – morale e militare. Il tutto senza che una sola donna o un solo uomo di servizio americano sia rimasto ferito o sia andato perso e senza alcuna deviazione o appropriazione indebita degli aiuti americani”.

Come ha recentemente osservato Dave DeCamp di Antiwar, questo tipo di discorso sugli “investimenti” in Ucraina è diventato sempre più comune. Lo scorso fine settimana il senatore Mitt Romney ha definito la guerra “la migliore spesa per la difesa nazionale che penso abbiamo mai fatto”.

“Non stiamo perdendo vite umane in Ucraina e gli ucraini stanno combattendo eroicamente contro la Russia”, ha detto Romney. “Stiamo diminuendo e devastando l’esercito russo per una somma di denaro molto piccola… una Russia indebolita è una buona cosa”.

Il mese scorso il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell ha affermato che gli americani dovrebbero sostenere la guerra per procura del governo americano in Ucraina perché “non abbiamo perso un solo americano in questa guerra”, aggiungendo che la spesa sta aiutando a impiegare americani nel complesso militare-industriale. 

“La maggior parte del denaro che spendiamo per l’Ucraina viene effettivamente speso negli Stati Uniti, ricostituendo armi, armi più moderne”, ha detto McConnell. “Quindi, si tratta a tutti gli effetti di assumere persone qui e di migliorare le nostre forze armate per ciò che potrebbe accadere in futuro.”

McConnell parla già dallo scorso anno di quanto questa guerra avvantaggi gli Stati Uniti. In occasione di un discorso pronunciato lo scorso dicembre, il mostro malato della palude ha sostenuto che “le ragioni più basilari per continuare ad aiutare l’Ucraina a indebolire e sconfiggere gli invasori russi sono i freddi, duri e pratici interessi americani”

“Aiutare i nostri amici nell’Europa orientale a vincere questa guerra è anche un investimento diretto nel ridurre le future capacità di Vladimir Putin di minacciare l’America, minacciare i nostri alleati e contestare i nostri interessi principali”, ha affermato McConnell.

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Come abbiamo discusso in precedenza, i manager dell’impero statunitense hanno parlato di quanto questa guerra sia utile agli interessi degli Stati Uniti sin dal suo inizio.

Nel maggio dello scorso anno il membro del Congresso Dan Crenshaw ha dichiarato su Twitter che “investire nella distruzione delle forze armate del nostro avversario, senza perdere una sola truppa americana, mi sembra una buona idea”.

“È nell’interesse della sicurezza nazionale dell’America che la Russia di Putin venga sconfitta in Ucraina”, ha twittato il perennemente eccitato dalla guerra senatore Lindsey Graham. 

Lo scorso novembre il Center for European Policy Analysis, il think tank finanziato dalla macchina da guerra imperiale, ha pubblicato un articolo intitolato It’s Costing Peanuts for the US to Defeat Russia (Sconfiggere la Russia ci sta costando noccioline), con sottotitolo “L’analisi costi-benefici del sostegno statunitense all’Ucraina è incontrovertibile. Sta producendo vittorie a quasi tutti i livelli”.

“Spendere il 5,6% del budget della difesa statunitense per distruggere quasi la metà delle capacità militari convenzionali della Russia sembra un investimento assolutamente incredibile”, ha affermato Timothy Ash, autore dell’articolo. “Se ripartissimo il bilancio della difesa statunitense in base alle minacce che deve affrontare, la Russia avrebbe forse una spesa per minaccia dell’ordine di 100-150 miliardi di dollari. Quindi, spendere solo 40 miliardi di dollari all’anno erode un valore di minaccia di 100-150 miliardi di dollari, con un rendimento di due o tre volte. In realtà, è probabile che il rendimento sia multiplo di questo valore, dato che la spesa per la difesa e la minaccia sono eventi annuali ricorrenti”.

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Ovviamente, i mass media sono tutti saliti a bordo riproponendo lo stesso messaggio. Qualche settimana fa David Ignatius del Washington Post ha scritto un articolo in cui spiegava perché gli occidentali non dovrebbero “sentirsi tristi” su come stanno andando le cose in Ucraina, dal momento che la guerra sta solo portando vantaggi agli interessi degli Stati Uniti all’estero:

“Nel frattempo, per gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO, questi 18 mesi di guerra sono stati una manna strategica, a un costo relativamente basso (tranne che per gli ucraini). L’antagonista più spericolato dell’Occidente è stato colpito. La NATO è diventata molto più forte con l’adesione di Svezia e Finlandia. La Germania si è liberata dalla dipendenza dall’energia russa e, in molti modi, ha riscoperto il proprio senso dei valori. I litigi all’interno della NATO fanno notizia, ma nel complesso questa è stata un’estate trionfale per l’alleanza”.

Sospetto che ricorderò periodicamente ai miei lettori quel paragrafo, incluso l’inciso di Ignatius “tranne che per gli ucraini”, per il resto della mia carriera di scrittrice.

Quindi, mentre da un lato la classe politica e mediatica occidentale ci ripete ossessivamente da mesi che l’invasione dell’Ucraina “non è stata provocata” e che gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno svolto alcun ruolo nel facilitare questo conflitto, dall’altra tutti i manager dell’impero sono entusiasti di come questa guerra avvantaggi gli interessi degli Stati Uniti. 

Queste due narrazioni sembrano un po’ contraddittorie, non è vero?

Un pensatore critico può conciliare questa contraddizione in due modi. Il primo, può credere che il governo più potente e distruttivo del mondo sia solo un testimone passivo e innocente della violenza in Ucraina e tragga enormi vantaggi dalla guerra solo per pura coincidenza. Il secondo, può credere che gli Stati Uniti abbiano intenzionalmente provocato questa guerra con la consapevolezza che ne avrebbero tratto beneficio.

Da dove sono seduta, non è difficile decidere quale di queste due possibilità sia la più probabile.

La Moldavia potrebbe vincere la corsa Europea all’energia verde

La Moldavia, il più povero Paese Europeo potrebbe essere il primo a subire la più grande transizione e rinascita del dopoguerra. Questi investimenti privati ​​e l’assistenza estera potrebbero trasformare la Moldavia, il paese più povero d’Europa, nel primo paese veramente verde del continente.

Con una popolazione di poco più di 2,5 milioni di persone, la Moldavia è un paese spesso dimenticato e probabilmente l’ultimo posto che molti penserebbero potrebbe essere in prima linea in una rivoluzione verde, e per una buona ragione. Secondo l’ Agenzia internazionale per l’energia , è uno dei paesi meno autosufficienti dal punto di vista energetico sulla Terra. La Moldavia è totalmente dipendente dalle importazioni di energia: il 99% del petrolio e il 100% del gas naturale vengono importati. Il paese ha un’unica centrale elettrica, situata problematicamente nella regione separatista della Transnistria , sostenuta dalla Russia . Questa è la ricetta per un disastro energetico.

Anche il settore del gas della Moldavia è quasi interamente controllato da un monopolio chiamato Moldovagaz, di proprietà al 51% del colosso russo del gas Gazprom. Questo accordo ha permesso a Mosca decenni di controllo punitivo, a volte vendicativo. Ad esempio, Gazprom sostiene che Chişinău deve 800 milioni di dollari tramite Moldovagaz, anche se il presidente Maia Sandu ha annunciato il 3 settembre che un audit del governo moldavo non ha rilevato debiti legittimi. Il contenzioso che ne seguirà sarà probabilmente lungo e costoso.

Inoltre, anche se la Moldavia non sta importando direttamente alcun gas russo, il paese è bloccato con contratti sul gas profondamente svantaggiosi e legalmente impraticabili, concordati da Moldovagaz, dai quali potrebbe rivelarsi estremamente costoso liberarsi. L’ultima risale all’ottobre 2021 e impegna Chişinău ad altri cinque anni di Gazprom. E gli attori filo-russi nel governo moldavo caduto nel febbraio 2023, o forse all’interno di Moldovagaz, hanno cancellato i file di cui Chişinău aveva bisogno per rompere il contratto.

Eppure sono proprio queste circostanze profondamente sfavorevoli che potrebbero rivelarsi un vantaggio invidiabile nella transizione verde. Mentre paesi come la Germania e la Polonia devono smantellare enormi sistemi energetici dipendenti rispettivamente principalmente da gas e carbone, la Moldavia può permettersi il lusso controintuitivo di poter iniziare quasi da zero. A rischio di diminuzione: invece di provare a girare un’enorme nave cisterna in un canale stretto, deve solo pilotare un gommone.

In effetti, la Moldavia registra a malapena la domanda di energia. Il suo consumo complessivopro capite è circa la metà della media europea con 1,5 tonnellate di petrolio equivalente, 3 miliardi di metri cubi (bcm) di gas naturale e appena 2.000 KWh di energia all’anno. Sostituirla con fonti rinnovabili o altre fonti pulite è quindi un compito relativamente piccolo, reso più semplice dal fatto che la rete elettrica e le infrastrutture del gas naturale della Moldova sono già collegate ai suoi vicini. Un singolo parco solare o eolico da 300 MW, ad esempio, potrebbe da solo decarbonizzare l’energia di 300.000 case. Tutto ciò che il Paese deve fare è attirare alcuni investitori nel settore energetico e il lavoro sarà già a metà dell’opera, e molti di questi potenziali investitori stanno già esaminando progetti di ricostruzione ucraini che potrebbero facilmente incorporare la Moldavia. Per continuare la metafora della barca,

Quella proverbiale piccola barca viene anche dotata di un enorme motore sotto forma di ampi aiuti esteri. Nel 2022, più di 1 miliardo di dollari è stato promesso a Chişinău, principalmente da Stati Uniti e UE. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno donato oltre 100 milioni di dollari nel 2022, di cui 40,5 milioni di dollari erano finanziamenti legati all’energia e altri 30 milioni di dollari erano sostegno al bilancio “per aiutare a migliorare la crisi energetica”. L’assistenza ha continuato ad affluire quest’anno. A febbraio, gli Stati Uniti hanno annunciato ulteriori 300 milioni di dollari di sostegno energetico alla Moldavia. Anche le istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo stanno aiutando la Moldavia. Insieme a potenziali investimenti privati, questa potrebbe essere una miniera d’oro per la transizione energetica.

Per fortuna, Chişinău sta esplorando la possibilità di costruire un nuovo settore energetico che faccia affidamento sulle energie rinnovabili invece che sui combustibili fossili stranieri. Alla fine del 2022, il presidente moldavo Maia Sandu, sostenuto dall’occidente, ha proposto all’UE un piano per rendere il paese carbon neutral entro il 2035. Ciò richiederebbe lo sviluppo del biometano, la costruzione di impianti di stoccaggio dell’elettricità, l’invecchiamento degli edifici esistenti, l’elettrificazione del riscaldamento con pompe di calore e pannelli solari residenziali e altre innovazioni. Anche i parchi eolici sono oggetto di studio attivo.

Per fare ciò, la Moldavia avrà bisogno di un investimento stimato di 1 miliardo di dollari all’anno. Questo è, ovviamente, ciò che sta ottenendo ora, anche se con le restrizioni e le condizionalità imposte dagli aiuti esteri. Ma con l’assistenza, le catene di approvvigionamento, le competenze e soprattutto gli investimenti privati ​​provenienti dall’Occidente, la Moldavia – inclusa la Transnistria – potrebbe essere strappata con successo alla presa della Russia mentre la causa della decarbonizzazione è avanzata.

Naturalmente, questi piani sono più facili da formulare che da attuare, e Chişinău ha intrapreso da tempo un percorso di riforme a modo suo. In Moldavia sussistono notevoli preoccupazioni in materia di corruzione. Decenni di sostegno da parte della generosità di governi stranieri hanno creato anche una sorta di cultura dell’impotenza. Il Paese ha già avuto l’opportunità di indebolire la morsa del Cremlino e di Gazprom, ma non le ha colte.

Ma il presidente Sandu e il suo nuovo governo hanno intrapreso alcuni passi concreti per iniziare a trovare una strategia per sfuggire a Gazprom. A giugno, Chişinău ha assunto come consigliere chiave l’ucraino Andriy Kobolyev, che, in qualità di capo del monopolio del gas ucraino, è riuscito a liberare l’Ucraina dalla dipendenza dal gas naturale russo, creando un progetto per la Moldavia per fare lo stesso. La sua squadra ha anche avuto la meglio su Gazprom in tribunale nel mezzo di una controversia legale riguardante i contratti del gas per un importo di 2,9 miliardi di dollari , e ha ottenuto il pagamento dell’Ucraina.     

Meno promettente è il fatto che Chişinău si è mostrata stranamente ostile agli investimenti privati ​​nel settore energetico. Ciò renderà molto difficile per il Paese modernizzarsi e attrarre il capitale più flessibile del settore privato, a fronte del sostegno ingombrante e limitato dei governi stranieri. Ciò significa anche che i venti politici mutevoli a Washington, Londra o Bruxelles potrebbero ostacolare i piani della Moldova in qualsiasi momento. Le ambizioni di transizione energetica potrebbero anche essere bloccate dai cambiamenti nella politica moldava se si basassero su relazioni politiche bilaterali invece che su contratti privati.  

Inoltre, la maggior parte delle poche aziende che hanno coraggiosamente investito nel settore energetico della Moldavia negli ultimi 20 anni sono state indebolite o cacciate. La spagnola Gas Natural Fenosa, il più grande fornitore e distributore di elettricità della Moldavia, ha subito battute d’arresto per oltre 102,6 milioni di euro (110,06 milioni di dollari) a causa di una lunga disputa con il governo sulle tariffe elettriche. Gli esperti che conoscono la situazione ritengono che si trattasse di un tentativo di prevenire eventuali profitto derivante alla società impedendole di addebitare ai clienti abbastanza da recuperare i costi, oltre a qualche forma di cattiva gestione o incompetenza o al trionfo degli interessi acquisiti del Cremlino .Gas Trading, la più grande compagnia privata di gas del paese e unico concorrente privato di Moldovagaz, è ora coinvolta in una controversia legale simile sulle tariffe del gas. Nel mese di giugno, l’autorità di regolamentazione energetica della Moldavia ha autorizzato Moldovagaz ad applicare prezzi più alti di quelli che gli investitori privati ​​possono addebitare per gli stessi servizi di fornitura di gas. Pochi, se non nessun investitore nel settore delle energie rinnovabili, probabilmente entrerà nel settore energetico della Moldavia fino a quando il clima economico non cambierà.   

Ma se Chişinău risolvesse le cause legali degli investitori privati ​​nel settore energetico, creasse una struttura normativa attraente per governare i progetti di energia rinnovabile e si liberasse da Gazprom, allora la conseguente ondata di investimenti, la buona volontà e l’assistenza estera da parte dei governi occidentali dovrebbero essere più che sufficienti per aiutare il paese. trasformazione del paese. Per diventare ancora più attraente per il capitale privato, la Moldavia potrebbe offrire incentivi ai futuri investitori nei biocarburanti, nell’energia eolica, nel solare e altro ancora. Anche i governi occidentali e le banche internazionali dovrebbero essere disposti a offrire garanzie che addolcirebbero l’accordo.

Questo momento è un’opportunità senza precedenti per la più piccola vittima di secoli di persecuzione e dominio energetico della Russia. Chişinău ha la visione di un futuro pulito, verde e a zero emissioni di carbonio, e ha i soldi e le prospettive con cui finanziare la transizione. Diventare il primo paese verde d’Europa non farebbe altro che accelerare il tentativo della Moldavia di aderire all’UE. E quale modo migliore per mettere un pollice negli occhi a Vladimir Putin se non diventare autosufficiente dal punto di vista energetico ed evitare i combustibili fossili che contribuiscono ad alimentare le casse del Cremlino? Chişinău potrebbe aprire la strada.

FONTE


Quel che resta delle Maldive

L’inchiesta di Davide Illarietti

I turisti se ne vanno, e la Verzasca rimane con un vuoto da riempire: come tante valli a rischio spopolamento

Il nostro reportage

La casa di Carmelo Pinana è la più fotografata di Sonogno. «Se chiedessimo un centesimo a foto, saremmo ricchi. Lo diceva già mio nonno». Sotto i geranei del 64.enne le frotte di turisti coi bastoni da «selfie» sono aumentate negli ultimi anni. Prima gli italiani, poi cinesi e americani. Quest’estate ha contato molti arabi. «Siamo diventati le Maldive d’Arabia» scherza.

Ma in realtà per vedere casa sua, nessun viaggiatore ha fatto più strada di Pinana. Ex tecnico alla RSI, per 30 anni ha pendolato da Sonogno a Lugano: 2 ore e 40 d’auto al giorno senza traffico. «Volevo rimanere in valle senza rinunciare a un mestiere interessante» spiega. «È stato faticoso, ma non mi pento».

Carmelo Pinana davanti a casa sua. © CdT

Carmelo Pinana davanti a casa sua. © CdT

La sua fatica è quella di tutta una valle che, sovraffollata d’estate, il resto dell’anno combatte contro lo spopolamento. Mentre i turisti aumentano (9.597 pernottamenti l’anno scorso) gli abitanti sono scesi a 785 nel 2023 secondo l’USTAT: quando Pinana pendolava erano il 20 per cento in più (954 nel 2000). Per 406 economie domestiche ci sono 400 auto, in gran parte utilizzate per andare a lavorare fuori.

Calo demografico

Anche Patrizio Piazza conosce bene il problema. Ha solo 8 anni e assieme alla sorella più grande (13) è la ragione per cui i suoi genitori si sono trasferiti a Frasco 6 anni fa. «Volevano portarci lontano dal traffico» spiega armeggiando con una pistola ad acqua tra le galline in giardino. «Qui le auto non si sentono, con gli amici gioco al fiume e nel bosco e a scuola ci vado da solo, fino a Brione». Suo padre invece va fino a Locarno per il lavoro, mentre la mamma Isabelle Piazza (che prepara un caffè sulla terrazza) è municipale.

La scarsità di bambini dell’età di Patrizio è uno dei principali crucci del Municipio. Quando Piazza-madre ha assunto la delega alla scuola tre anni fa, alle elementari gli allievi erano «vicini al l limite di legge per mantenere aperto l’istituto» spiega la municipale. Grazie a una collaborazione con Gordola ora sono saliti a 32, divisi in due pluri-classi. È stato avviato un progetto di scuola nel bosco: puntare sul «valore aggiunto di un’educazione a contatto con la natura» secondo Piazza potrebbe essere la chiave per portare nuove famiglie in valle.

La municipale Isabelle Piazza con il figlio Patrizio. © CdT/Chiara Zocchetti

La municipale Isabelle Piazza con il figlio Patrizio. © CdT/Chiara Zocchetti

Non è una sfida facile. Ma con oltre un terzo di residenti sopra i 65 anni, la scommessa è cruciale. Il 2023 è stato un anno fortunato: cinque donne incinte, di cui tre hanno già partorito. «Sono numeri irrisori per altre realtà, ma per noi è già molto» sottolinea il sindaco Ivo Bordoli. Mantenere in valle le scuole medie (oggi hanno 5 allievi) così come l’ufficio postale di Brione, è una delle priorità sul tavolo del Municipio assieme alla necessità di attirare nuovi servizi. A fine anno sempre a Brione dovrebbe aprire una Coop, il primo supermercato della valle. «Un passo importantissimo» sottolinea il sindaco.

Croce, delizia e traino di ogni progetto è naturalmente il turismo, esploso con le limitazioni pandemiche e l’arrivo degli influencer: le acque della Verzasca benedette da YouTube («le Maldive di Milano») hanno portato linfa nelle casse dei sette ex Comuni, che prima dell’aggregazione erano in dissesto. Assieme ai turisti è arrivato anche il traffico (note le code chilometriche in alta stagione all’ingresso della valle) e altri effetti collaterali. I prezzi delle abitazioni restano più bassi che nel Locarnese, ma «molti proprietari di casa preferiscono affittare ai turisti per qualche settimana piuttosto che ai locali» sottolinea Bordoli. Il tema è stato trattato in una recente seduta di Municipio, ma le soluzioni scarseggiano così come i terreni edificabili in valle.

Tanti progetti

«L’offerta di abitazioni adatte alle esigenze di una famiglia che rimane tutto l’anno, e non solo poche settimane, è carente e questo sicuramente rappresenta un disincentivo per chi vorrebbe rimanere o trasferirsi stabilmente» conferma Alessandro Speziali. Come coordinatore dei progetti di sviluppo presso la Fondazione Verzasca, la lotta allo spopolamento è la sua missione. «È chiaro che non è facile invertire una tendenza demografica» ammette. «Ma ci stiamo dando da fare».

Dal 2018 le iniziative messe in campo dalla Fondazione con Comune e patriziati non si contano: dall’albergo diffuso di Corippo alla promozione dei prodotti locali (marchio Vera Verzasca), dai progetti ricettivi (il cantiere del campeggio di Brione, pronto a partire) a quelli legati allo sport (il centro polisportivo di Sonogno) o alle nuove professioni digitali (un co-working già aperto a Brione, un altro in arrivo). Senza contare il servizio di mini-bus elettrici su prenotazione – «funziona benissimo» assicura il piccolo Patrizio, che lo usa quotidianamente senza accompagnatore – e le offerte culturali come il Verzasca Foto Festival, la cui decima edizione si conclude oggi.

Radiografia di una valle

Mahmoud Khattab, 32 anni, ha affisso a due alberi un auto-ritratto scattato sulla riva del fiume. Gli escursionisti si fermano sul sentiero ad osservare la sua esposizione, alcuni lo conoscono di persona. Il fotografo egiziano ha abitato per tre mesi a Frasco grazie a una residenza d’artista. Ha conosciuto persone, pregi e difetti della valle. «È un posto molto armonioso e ordinato. Ma nei weekend al fiume ho visto anche spazzatura e maleducazione» esemplifica. «La vita è semplice e sana, e allo stesso tempo i costi sono alti e gli affitti proibitivi persino per la gente del posto». In passato Khattab si è occupato di valli «morte» a causa dell’inurbamento attorno al Cairo: spera che non diventi anche la Verzasca una «death valley».

Maya Sonognini e Santiago Escobar-Jaramillo. CdT/Chiara Zocchetti

Maya Sonognini e Santiago Escobar-Jaramillo. CdT/Chiara Zocchetti

Se ciò non avverrà, il merito potrebbe essere anche degli immigrati. Santiago Escobar-Jaramillo, 44 anni, è un artista colombiano e per il Festival ha realizzato diverse istallazioni sul tema dell’accoglienza. Nei mesi trascorsi in Verzasca ha fatto amicizia con la gente del posto – «molto accogliente» – e con diversi immigrati. «La valle è un luogo da cui la gente se ne va, ma anche un approdo per persone che vengono da lontano» sottolinea. Il rapporto tra autoctoni e stranieri è al centro del progetto fotografico di Escobar-Jaramillo, che ha coinvolto anche alcuni rifugiati giunti in Verzasca dall’Afghanistan. Tra questi una madre e una bambina di 9 anni che, l’anno scorso, sono state protagoniste di una raccolta firme contro la decisione di rimpatrio. Grazie alla mobilitazione popolare (2.400 firme) e a una sentenza del Tribunale amministrativo, entrambe sono rimaste in valle.

Chi viene e chi va

«La gente di qui ad alcuni può sembrare chiusa, ma in realtà è capace di grande apertura» assicura Maya Sonognini, guatemalteca da 23 anni abitante «adottiva» di Sonogno. Anche lei è stata coinvolta nel progetto di Escobar-Jaramillo con la sua attività: un antico forno riaperto assieme al marito, originario del paese. A pochi passi ci sono la casa-cartolina di Pinana, con i muri a secco e i geranei in fiore, e l’unico alimentari nel raggio di sette chilometri. La commessa Lisa conosce gli abitanti uno a uno – «il paese è piccolo, i clienti fissi saranno una ventina» – ed è preoccupata per l’apertura del supermarket a Brione. Per un negozio che arriva, ricorda, un altro potrebbe partire. Intanto l’effetto-Maldive come ogni anno è finito – «la stagione non è andata bene come l’anno scorso» è il ritornello in valle – e anche i turisti pian piano se ne vanno. Lasciando il posto a un vuoto da riempire.

La commessa Lisa, a Sonogno. © CdT/Chiara Zocchetti

La commessa Lisa, a Sonogno. © CdT/Chiara Zocchetti

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L’APPROCCIO CINESE AL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Fonte immagine: https://www.lowyinstitute.org/the-interpreter/china-s-carbon-emissions-trading-scheme-smoke-mirrors

Con l’aggravarsi della situazione climatica mondiale, gli Stati si stanno impegnando a mitigare il problema. Una delle soluzioni attuate dal governo cinese, è stato il lancio ufficiale di un suo sistema di scambio di emissioni. Nel 2021, hanno difatti creato il più grande mercato di scambio di carbonio del mondo. L’Emmisions Trading System (ETS) è un meccanismo per lo scambio di quote di emissione di gas serra, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di carbonio e promuovere la transizione verso un’economia più verde. Il mercato copre il settore della produzione di energia e altre industrie pesanti e si prevede che si espanderà per coprire più settori in futuro.

La crisi ambientale cinese – risultato di decenni di rapida industrializzazione – non solo minaccia la salute e i mezzi di sussistenza degli 1,4 miliardi di abitanti del paese, ma anche il buon esito della lotta globale contro il cambiamento climatico. Essendo infatti la Cina la più grande fonte mondiale di emissioni di gas serra degli ultimi anni, soffre ormai di un livello di inquinamento atmosferico notoriamente molto elevato.

Le sue industrie ad alta intensità di emissioni di anidrite carbonica o hanno causato ulteriori forti impatti ambientali, tra cui la scarsità d’acqua e la contaminazione del suolo. E, come il resto del mondo, nei prossimi decenni la Cina dovrà affrontare conseguenze sempre più dure del cambiamento climatico, comprese inondazioni e siccità. In risposta a queste problematiche il Dragone ha deciso di ratificare accordi come quello di Parigi, o il Protocollo di Kyoto, per conformarsi alle misure di mitigazione che il resto del mondo sta cercando di attuare per risollevare le sorti del nostro Pianeta.  

Con il Protocollo di Kyoto – il primo e più importante accordo internazionale dopo la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) – sono stati istituiti degli obiettivi vincolanti di limitazione e riduzione dei gas effetto serra per i paesi che vi aderiscono.

Queste riduzioni devono avvenire principalmente a livello nazionale, tuttavia il Protocollo permette di ridurre le emissioni di gas effetto serra attraverso dei meccanismi basati sul mercato, i cosiddetti Meccanismi Flessibili, il principale dei quali è: l’Emissions Trading System

Quest’ultimo consente lo scambio di crediti di emissione tra Paesi industrializzati e ad economia in transizione; un paese che abbia conseguito una diminuzione delle proprie emissioni di gas serra superiore al proprio obiettivo può così cedere (ricorrendo all’ETS) tali “crediti” a un paese che, al contrario, non sia stato in grado di rispettare i propri impegni di riduzione delle emissioni di gas-serra.

La Cina – che prima non aveva valutato l’implementazione di un proprio ETS nazionale – nel 2013, anche a causa dei persistenti fenomeni di estesa ed inquietante foschia che avvolgeva le proprie città, ha deciso di iniziare a valutare un sistema cinese di scambio di carbonio. L’Unione Europea in questo caso ha fatto da musa, avendo istituito il proprio meccanismo (nonché il primo in assoluto in tutto il mondo) di scambio delle quote di gas effetto serra. Il sistema europeo di emissions trading (EU ETS), varato con una Direttiva del 2003 e operativo dal 2005, è un modello che, attraverso quasi vent’anni di funzionamento e progressive correzioni delle regole iniziali, ha creato un corpo di esperienze utili per la progettazione e la gestione di sistemi analoghi in varie parti del mondo

Pechino, ispirata da questa nuova politica europea, ha quindi creato il proprio “carbon’s market” che funziona secondo uno schema di quote. Le aziende nell’ambito del programma sono tenute a depositare i permessi di emissione presso il governo per evidenziare la parte delle loro emissioni che intenderebbero negoziare. 

PLo schema consente agli emettitori di carbonio di seguire due vie: ridurre le emissioni o acquistare quote di emissione da altri emettitori, creando un mercato del carbonio in cui gli emettitori possono acquistare e vendere crediti di emissione. Il Beijing Green Exchange e il China Hubei Carbon Emissions Exchange sono le due piattaforme di scambio per il sistema. Il Beijing Green Exchange è la piattaforma di scambio nazionale per i crediti volontari di carbonio e per le compensazioni nazionali, che gli operatori coperti dall’ETS nazionale possono utilizzare per la conformità. Questo sistema, che copre il 40% delle emissioni totali cinesi, permetterà la neutralità dal carbone entro il 2060, come d’altronde è stato stabilito con l’Accordo di Parigi, o almeno così sembra.

Xi Jinping è perfettamente cosciente che il ruolo cinese, nelle politiche climatiche, è sicuramente di grande importanza e che questo meccanismo di scambio delle quote di gas effetto serra permette, alla Nazione che guida, uno sviluppo coerente nel rispetto delle ormai necessarie politiche climatiche. Ciò potrebbe inoltre rafforzare la leadership della Cina nell’azione per il clima e la sua influenza nei negoziati globali. Altri paesi potrebbero guardare all’ETS cinese come modello per i propri sforzi di riduzione delle emissioni. 

Pechino attualmente si trova in una posizione in cui ha pochi alleati su cui poter contare, per via di diversi fattori: la sempre più contorta situazione taiwanese, le controversie territoriali e l’equivoca collocazione cinese nei riguardi degli eventi bellici russo-ucraini. Ha l’effettivo bisogno di costruirsi alleati almeno sul fronte climatico, seppur cosciente di “avere il coltello dalla parte del manico”, in quanto maggior emettitore al mondo. Una situazione che sul fronte Stati Uniti potrebbe rappresentare due lati della stessa medaglia. 

Nel primo scenario si presuppone che grazie a questo nuovo mercato, la Cina si faccia promotrice delle politiche climatiche autoproclamandosi come leader, (aumentando la propria influenza geopolitica) ruolo che molto spesso è stato di Washington – almeno prima che Trump decidesse di ritirarsi dall’accordo di Parigi, dopo averlo firmato – sicuramente non abituato ad essere secondo in qualcosa. Dall’altra parte potrebbe essere percepito come un punto di svolta che permette ai due grandi Paesi, nonché i due più grandi inquinatori, di voler cooperare in merito alle azioni di tutela climatica. 

Certamente utopico, ma nel 2021 Cina e Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a lavorare insieme per affrontare la crisi climatica. La dichiarazione include impegni per rafforzare le ambizioni climatiche, promuovere lo sviluppo verde e sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. 

Inoltre, la presenza di un meccanismo di scambio delle quote di gas effetto serra cinese, potrebbe invogliare gli USA ad istituirne uno, dato che attualmente rimangono l’unica superpotenza a non possederne alcuno, a differenza della sua nemesi cinese e della sopracitata Unione Europea. 

L’ETS sta dunque permettendo al Dragone di applicare la sua politica di riduzione, che lo porterà alla neutralità carbonica entro il 2060, o almeno così si spera. Nonostante possa sembrare un approccio vincente da molti lati, nasconde sicuramente anche alcune criticità: la mancanza di trasparenza, che riguarda l’assegnazione delle quote di emissione; la copertura limitata, incentrata esclusivamente sul settore energetico; monitoraggio e applicazione. Ci sono preoccupazioni circa l’accuratezza dei dati sulle emissioni e la capacità dei regolatori di far rispettare i limiti di emissione. Senza un adeguato meccanismo di monitoraggio e un’applicazione efficaci, il sistema potrebbe non raggiungere i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni. 

Sebbene il sistema di scambio di emissioni cinese sia il più grande mercato del carbonio del mondo, e presenti alcune potenziali sfide tendenti ad obiettivi virtuosi, accusa anche molte ombre e poca esperienza. Nel complesso avrebbe comunque tutte le “carte in regola” per svolgere un ruolo significativo negli sforzi di riduzione delle emissioni globali e potrebbe permettere, una volta tanto, a Pechino di cooperare con la comunità internazionale, fatto non del tutto scontato.

La sola possibilità di una futura riduzione totale di emissioni di carbonio da parte della Cina segna una grande vittoria, non solo per il clima ormai devastato, ma anche per le future collaborazioni che questo paese potrà avere con delle nazioni, come gli Stati Uniti, che proveranno ad impegnarsi nella creazione di un proprio ETS, come risposta al cambiamento climatico.

Greta Caira

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Alzheimer:Le percezioni del malato

Esemplificazione dei cambiamenti della percezione visiva e cognitiva, studiati su malati di Alzheimer a diversi stadi della malattia (dallo stadio iniziale a 24 mesi dopo l’insorgere della patologia).

La documentazione scientifica inerente la malattia di Alzheimer rileva che, a livello mondiale, questa patologia, insieme con gli altri tipi di demenza, affligge circa 18 milioni di cittadini e rappresenta il 60% sul totale delle demenze. Il fenomeno assume grande rilevanza anche a livello europeo; vengono rilevati circa 3 milioni di casi annui in Europa. In Italia, ne soffrono 600.000 persone (pari al 6 – 7% della popolazione sopra i 65 anni) e si contano circa 80.000 nuovi casi l’anno.

Tali rilevanze demografiche hanno portato all’aumento della spesa pubblica come risposta alla crescente richiesta di servizi adeguati. Il fatto che, ad oggi, non esistano terapie farmacologiche efficaci per la guarigione, ha spostato l’interesse ad un approccio di tipo riabilitativo che trova nel microambiente in cui il malato vive, un alleato strategico. Un ambiente idoneo, infatti, diventa promotore delle facoltà residue della persona, sia sul piano cognitivo, funzionale, comportamentale che affettivo.

All’ambiente domestico e all’importanza che esso assume per mantenere la persona con Alzheimer nella propria casa il più a lungo possibile è dedicato invece l’opuscolo Visioni sfumate. Nella sua facilitata comunicatività è un efficace strumento di ausilio per i familiari dei malati, sui quali grava l’onere e la responsabilità di una faticosa assistenza.

L’illlustazione di questa pagina è tratta da “Gentlecare – changing the experience of Alzheimer’s Disease in a positive way” di Moyra Jones – Hartley & Marks Publishers, Vancouver, 1999